sabato 18 settembre 2010

Jimi Hendrix, il ricordo a 40 anni dalla morte.


Una Fender Stratocaster cosparsa di gas fluido data alle fiamme con uno Zippo al termine di “Wild thing”, sul palco del Monterey Pop Festival. O quello ‘Star spangled banner’ trasfigurato, l’inno americano che diventa una botta di rock acido e psichedelico una mattina di agosto a Woodstock, dopo tre giorni di pace, amore e musica. L’iconografia di James Marshall Hendrix, il più grande chitarrista di tutti i tempi, racchiusa in due gesti.
Ma prima di diventare icona, Jimi attraversò la scena musicale come una stella cometa e, tra quel giorno del 1966 in cui fu scoperto da un collega a New York al 18 settembre di 40 anni fa, quando venne ritrovato morto in circostanze mai del tutto chiarite a Londra, la cambiò per sempre.
Una fidanzata di Keith Richards aveva dato una dritta a Chas Chandler, ex bassista degli Animals di passaggio a New York: che si recasse subito al Cafe Wha? per dare un’occhiata a questo tipo incredibile. Chandler vi trovò in cartellone Jimmy James and the Blue Flames; sul palco, un ragazzo nero, capigliatura afro, che suonava una Stratocaster al contrario. Quel mancino, che a novembre avrebbe compiuto ventiquattro anni, dopo essersi congedato dall’esercito aveva supportato come chitarrista ritmico Sam Cooke, B.B. King, Little Richard, Jackie Wilson, Ike and Tina Turner, Wilson Pickett, King Curtis, Curtis Knight, Isley Brothers, John Paul Hammond.
Ma su quel palco stava finalmente liberando la sua arte, stava dipingendo la sua visione della musica del futuro. Era qualcosa di mai visto né sentito prima. La sua immagine era dandy, ricercata ma avveniristica - come la sua musica, una miscela sonora che stava espandendo il blues in direzioni impreviste e imprevedibili. Chandler ne divenne il manager, lo mise su un volo di prima classe per Londra, gli affiancò Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria e fece la storia. Jimi avrebbe fatto la leggenda. The Jimi Hendrix Experience incendiò Londra, e furono i suoi colleghi già celebri ad innalzarlo allo status di Migliore. Pete Townshend, Eric Clapton e Jeff Beck capirono e raccontarono a chiunque che quella versione spaziale del classico “Hey Joe” proveniva da un fenomeno autentico. Paul McCartney, quando erano passate solo poche settimane da “Are you Experienced?”, convinse gli organizzatori del Festival di Monterey a includerlo in tabellone.
Hendrix aveva folgorato la comunità delle rockstar, aveva sfondato lontano da casa e avrebbe suonato per tre anni e tre album per legioni di fans bianchi. Visse alla velocità della luce come lacerato su piani diversi che, purtroppo, faticò sempre ad armonizzare: lo studio, il palco e la vita privata.
In sala d’incisione ardeva la sua arte, prendeva corpo la sua visione, si sprigionavano la sua fantasia ed una tecnica inimitabile che avrebbe costituito una delle eredità di maggior valore e peso per la musica rock, pop, funk e jazz per decenni a venire. Riscrisse il vocabolario della chitarra elettrica, trasformò feedback e distorsione da effetti estemporanei in elementi di base e espanse i confini del suono che lo strumento poteva generare.
Sul palco creò per sé una figura teatrale che ebbe un impatto duraturo e definitivo sul modo di interpretare la dimensione live del rock, dettando nuovi stilemi a una psichedelia che non aveva mai coniato per sé un’immagine di contorno al suono. Dal vivo diede un senso vero alla catarsi, mutò le regole dello show, mescolò sessualità e spiritualità.
Nella vita privata fu incapace di sopportare le tensioni di una rockstar: troppo sensibile, non riuscì mai ad accettare con distacco (ed a gestirla) l’avidità di chi voleva solo sfruttarne la popolarità. Non seppe creare armonia tra la sua arte e la sua carriera, finendone logorato. Il Voodoo Child fu l’idolo rock dei bianchi che, però, stentava a fare breccia tra la sua gente: così come New York l’aveva incoronato solo dopo Londra, anche la Black Culture impiegò troppo tempo ad accoglierlo tra i propri eroi, incapace di digerire le contaminazioni sonore e sociali di una icona modernista che viveva disinvolto con musicisti e fidanzate bianche – qualcosa che faceva inorridire e incazzare pericolosamente le Black Panthers.
Abusato dai manager, Hendrix passò dagli Experience alla Band Of Gypsies, si sottopose a una routine massacrante di concerti a ogni latitudine e non riuscì che a consegnare agli archivi tre album: il già citato debutto, seguito da “Axis: bold as love” e dal doppio LP “Electric ladyland”. Una tripletta da fuoriclasse. Oggi sappiamo quale mole di materiale stesse processando prima di morire. Quali contaminazioni ulteriori stesse covando (la suggestione di una collaborazione con Miles Davis su tutte). Quante diramazioni la sua musica avrebbe generato, a prescindere dagli stili e dai generi.
Il 18 settembre 1970, pochi giorni dopo la sua ultima esibizione live all’Isola di Wight, mentre era al lavoro su “First ray of the new rising Sun”, Hendrix fu trovato senza vita a Londra, soffocato dal suo vomito provocato da un’intossicazione da barbiturici. Da quel momento il personaggio cominciò a insidiare il musicista, quando non a sorpassarlo. L’artista si trasformò in un’icona che nei decenni avrebbe rivaleggiato solo con quella di Che Guevara per diffusione e popolarità. Fu centrale nella musica e nella controcultura degli anni Sessanta e, suo malgrado, assurse a simbolo del decadentismo da morto illustrissimo quale fu. Ma, se fosse vissuto abbastanza, avrebbe messo radici nei suoi amati Electric Lady Studios e avrebbe continuato a dipingere scenari sonori incredibili.